Il caso di Sara Pedri riaccende il dibattito sul mobbing nei luoghi di lavoro, tra assoluzioni giudiziarie e l’urgenza di una normativa chiara per proteggere le vittime.
Il caso di Sara Pedri, la giovane ginecologa scomparsa misteriosamente il 4 marzo 2021, continua a sollevare interrogativi e riflessioni profonde sul tema del mobbing nei luoghi di lavoro. Recentemente, il giudice dell’udienza preliminare, Marco Tamburrino, ha assolto con formula piena l’ex primario dell’unità operativa di ginecologia e ostetricia dell’Ospedale Santa Chiara di Trento, Saverio Tateo, e la sua vice, Liliana Mereu. I due erano accusati di maltrattamenti in concorso e in continuazione nei confronti del personale del reparto.
Questa assoluzione, tuttavia, non chiude del tutto il dibattito pubblico, che rimane acceso sia per il caso specifico che per la più ampia questione della mancanza di una legge sul mobbing.
Il ruolo della giustizia e le testimonianze
Nonostante l’assoluzione giudiziaria, numerose testimonianze di medici e infermieri avevano descritto un clima di lavoro difficile e conflittuale nel reparto di ginecologia. La famiglia Pedri ha sostenuto fin dall’inizio che le condizioni di lavoro avrebbero avuto un ruolo determinante nel malessere psichico di Sara, ma il procedimento penale ha ritenuto che non vi fossero elementi sufficienti per dimostrare responsabilità penali a carico degli imputati.
Il giudice ha quindi stabilito che “il fatto non sussiste”, escludendo l’esistenza di condotte di rilevanza penale. Tuttavia, questa sentenza non nega la possibilità che vi siano stati disagi o pressioni psicologiche, difficili da dimostrare in assenza di una normativa chiara che regoli e definisca il mobbing.
Le parole della sorella di Sara: una battaglia per una legge sul mobbing
Emanuela Pedri, sorella di Sara, ha espresso la sua amarezza per l’esito del processo e per la mancanza di strumenti normativi adeguati.
“Non è possibile dire che il fatto non sussiste. Quello che è accaduto a mia sorella e a tanti altri lavoratori non può essere ignorato.”
Le sue parole evidenziano l’urgenza di una legge che possa definire in modo chiaro le condotte persecutorie sul lavoro e le responsabilità connesse.
Il vuoto normativo in Italia
L’Italia, a differenza di molti altri paesi europei, non dispone di una normativa specifica sul mobbing. Le vittime devono ricorrere a strumenti giuridici frammentati, tra cui il codice civile, il codice penale e la legislazione sulla sicurezza sul lavoro. Questo quadro normativo incompleto comporta difficoltà nel dimostrare la presenza di mobbing, lasciando ampio margine di interpretazione ai tribunali.
In assenza di una legge, i giudici spesso richiedono condizioni complesse per riconoscere un caso di mobbing, tra cui:
- La ripetitività delle condotte vessatorie.
- L’intento persecutorio.
- Il danno psico-fisico documentato della vittima.
Senza una normativa univoca, molti casi rischiano di essere archiviati o di concludersi con assoluzioni, come accaduto nel caso Pedri.
L’esempio di altri paesi
Paesi come Germania, Svezia e Francia hanno adottato leggi specifiche sul mobbing, che definiscono chiaramente le condotte vietate e le modalità di tutela delle vittime. Queste normative offrono una maggiore certezza del diritto, sia per chi denuncia sia per chi si difende.
Conclusioni
L’assoluzione di Saverio Tateo e Liliana Mereu, pur rappresentando un importante risultato processuale, non chiude la questione del mobbing in Italia. Rimane fondamentale colmare il vuoto normativo per evitare che situazioni simili possano ripetersi senza possibilità di tutela per le vittime. Il caso di Sara Pedri ha acceso i riflettori su un problema strutturale del sistema giuridico italiano, che necessita di una riforma legislativa per garantire giustizia e protezione a chi subisce pressioni psicologiche e vessazioni sul lavoro.